Culto domenicale:
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Domenica, 06 Ottobre 2019 19:23

Sermone di domenica 6 ottobre 2019 (Isaia 58,1-9a)

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Testo della predicazione: Isaia 58,1-9a

Grida a piena gola, non ti trattenere, alza la tua voce come una tromba; dichiara al mio popolo le sue trasgressioni, alla casa di Giacobbe i suoi peccati. Mi cercano giorno dopo giorno, prendono piacere a conoscere le mie vie, come una nazione che avesse praticato la giustizia e non avesse abbandonato la legge del suo Dio; mi domandano dei giudizi giusti, prendono piacere ad accostarsi a Dio. «Perché», dicono essi, «quando abbiamo digiunato, non ci hai visti? Quando ci siamo umiliati, non lo hai notato?». Ecco, nel giorno del vostro digiuno voi fate i vostri affari ed esigete che siano fatti tutti i vostri lavori. Ecco, voi digiunate per litigare, per fare discussioni, e colpite con pugno malvagio; oggi, voi non digiunate in modo da far ascoltare la vostra voce in alto. È forse questo il digiuno di cui mi compiaccio, il giorno in cui l’uomo si umilia? Curvare la testa come un giunco, sdraiarsi sul sacco e sulla cenere, è dunque questo ciò che chiami digiuno, giorno gradito al Signore? Il digiuno che io gradisco non è forse questo: che si spezzino le catene della malvagità, che si sciolgano i legami del giogo, che si lascino liberi gli oppressi e che si spezzi ogni tipo di giogo? Non è forse questo: che tu divida il tuo pane con chi ha fame, che tu conduca a casa tua gli infelici privi di riparo, che quando vedi uno nudo tu lo copra e che tu non ti nasconda a colui che è carne della tua carne? Allora la tua luce spunterà come l’aurora, la tua guarigione germoglierà prontamente; la tua giustizia ti precederà, la gloria del Signore sarà la tua retroguardia. Allora chiamerai e il Signore ti risponderà; griderai, ed egli dirà: «Eccomi!».

Sermone

            Cari fratelli e care sorelle, è una promessa di salvezza che il profeta Isaia annuncia e la fa in un’epoca difficile, quando il popolo è reduce dall’esilio in terra straniera, Babilonia. Il re persiano Ciro nel 538 a.C. è vincitore su Babilonia ed emana un editto che pone fine all’esilio di Israele; così comincia il ritorno in patria dei profughi esiliati, e con difficoltà, si ripopolano le campagne, comincia una lenta ricostruzione di quanto era stato distrutto e raso al suolo, anche il tempio di Gerusalemme.

         Ma le ristrettezze economiche fanno vacillare quanti hanno compiuto questo atto di fede, spesso si fermano i lavori di ricostruzione, presto entra lo scoramento e la sfiducia, lo slancio di un nuovo inizio presto si affievolisce.

         È a questa gente che Isaia parla, gente che tuttavia si rivolge a Dio, e a lui domanda quale futuro si delinea davanti a loro. Il lamento che sale a Dio è collettivo. Il popolo si rivolge a Dio nel culto, rende a Lui sacrifici, pratica diversi riti e, in particolare, il digiuno.

Ma Dio se ne sta in silenzio.

Si agita, allora, una domanda forte tra il popolo, una domanda che è sullo sfondo del nostro brano: «A che serve tutto questo se Dio non ci ascolta?». «Perché quando abbiamo digiunato non ci hai visti e quando ci siamo umiliati non lo hai notato?». Qui sta il problema: è il silenzio di Dio, un Dio che sembra cieco e sordo nei confronti di un popolo che ha fatto una scelta difficile e gli rende il culto secondo le tradizioni tramandate dai padri.

Questo pesa più di tutto.

         Isaia però svela un problema nascosto, e denuncia il fatto che i rituali liturgici, i sacrifici e tutto il culto che puoi rendere al Signore vanno accompagnati dalla coerenza e dall’impegno per la giustizia sociale.

         Allora Isaia ammonisce affermando che il digiuno vero e gradito a Dio è l’amore per il prossimo e non l’osservanza ritualistica di determinati giorni.

         Isaia si pone in linea con altri profeti che prima di lui hanno affermato: «Il Signore dice: “Io odio le vostre feste religiose, anzi le disprezzo! Detesto i vostri culti solenni. Quando mi presentate i vostri sacrifici sull’altare non li accetto… Basta! Non voglio più sentire il frastuono del vostri canti… piuttosto, fate in modo che il diritto scorra come acqua di sorgente e la giustizia come un torrente sempre in piena» (Amos 5,21-24).

         Per i profeti, il culto non basta, essi annunciano la necessità di superare l’insufficienza della pratica religiosa con l’azione per la libertà e la pratica della giustizia.

         Il digiuno è diventato una formalità, il culto qualcosa di arido e vuoto; certo, è tutto fatto in modo onesto e autentico, con umiltà, con commozione, con lacrime sincere, ma non basta, manca qualcosa.

Manca l’azione, quella non verso Dio, ma verso il prossimo, verso gli ultimi, gli infelici, chi non ha pane o vestiti sufficienti. Tutto diventa inutile se non ci si dispone ad un impegno di vita. «Certo, digiunate, curvate la testa, vi umiliate sdraiandovi sul sacco e sulla cenere, ma il digiuno che io gradisco è questo: spezzare le catene dell’ingiustizia, rimuovere ogni peso che opprime i poveri, liberare gli oppressi e spezzare ogni legame che li schiaccia. Digiunare significa dividere il pane con chi ha fame, aprire la tua casa ai poveri senza tetto, dare un vestito a chi non ne ha, che tu non ti nasconda (o che non farai finta di non vedere Deut. 22,1) a colui che è carne della tua carne», cioè un essere umano come te.

         Bisogna che l’attenzione si sposti da Dio al prossimo.

Se digiunare significa astenersi dal cibo, il digiuno vero è quello del condividere il cibo con chi non ne ha, è quello dell’astenersi dalla malvagità, dall’indifferenza. Significa avere un atteggiamento attivo nei confronti degli altri.

         Improvvisamente il profeta passa dal “voi” al “tu” per fare leva sulla responsabilità individuale: non è lecito nasconderti dietro l’andazzo della massa, non ti è lecito giustificarti dicendo che fai bene perché così fanno tutti. Tu sei chiamato individualmente alla responsabilità, a passare da un atteggiamento passivo a un atteggiamento attivo, sei chiamato a partecipare alla giustizia e alla pace. L’amore attivo nei confronti del prossimo vale più del culto a Dio, dice il profeta.

         Qual è, in questo brano, il messaggio che riguarda noi oggi?

C’è analogia fra la situazione dei giudei a cui si rivolge Isaia e noi? La Scrittura ha qualcosa da dire alla nostra generazione e a ognuno di noi?

         Forse l’analogia risiede nel senso di frustrazione che provava Israele e che provano oggi le nostre chiese: una frustrazione che ci porta a lamentarci con il Signore. Frustrazione rispetto al numero dei membri di chiesa che diminuisce; rispetto alle nostre finanze sempre in emergenza deficit; siamo in Italia un numero talmente esiguo di credenti protestanti che non permette alla nostra voce di essere ascoltata e di incidere socialmente; quanta frustrazione ci provoca il dolore, la sofferenza, il lutto, la disoccupazione dei nostri figli… e da qui, la nostra preghiera.

         Ma c’è anche un’altra analogia tra noi e Israele al quale si rivolgeva il profeta Isaia: è la disinvoltura con cui viviamo i rapporti con il nostro prossimo, sono rapporti inseriti pienamente nello schema della nostra società indifferente e assuefatta al male, alla malvagità, all’illegalità, alla disonestà, come realtà normali, naturali, umani.

Viviamo tutti, rapporti asserviti ai valori di una società individualista: ognuno difende il proprio bene, non vede il prossimo, la sua povertà, le catene dell’ingiustizia che lo opprimono; in fondo, ci siamo conformati al “presente secolo” per necessità o per scelta.

         Ecco, il profeta afferma che noi possiamo rendere il vero culto a Dio quando spezziamo il pane con chi ha fame, quando spezziamo le catene della malvagità con la nostra coerenza, nel nostro piccolo, quando promuoviamo la legalità non facendo ciò che fanno tutti, ma quelle che ci indica la nostra coscienza di credenti e non ce ne vergogniamo, quando non ci nascondiamo dal fratello, dalla sorella che potremmo aiutare in qualche modo, quando rimuoviamo le immagini troppo crude delle persone che subiscono indigenza e ingiustizia.

         Quando tutta la tua vita sarà un culto a Dio e non soltanto quando frequenti il tempio o fai la tua preghiera, allora «la tua luce spunterà come l’aurora, la tua guarigione germoglierà prontamente» dice Isaia nel nostro brano. Come dire che chi non vive una realtà di fede completa, condivisa, ma solo per sé, egoistica, è una persona che ha bisogno di essere guarita, da se stessa, da una malattia spesso difficile da individuare, perché non permette di vedere oltre se stessi, oltre il proprio naso, al di là della propria opinione, delle proprie convinzioni.

Isaia ti chiede invece di imparare a vedere, oltre te stesso, oltre te stessa, a vedere negli altri il giogo della povertà, anche spirituale, le loro catene, la loro oppressione; ti chiede di imparare ad ascoltare il grido di sofferenza degli altri, la loro infelicità, la loro nudità. Solo allora avrai la gioia di essere a tua volta visto/a, ascoltato/a, amato/a così come sei. Comprenderai il valore profondo della condivisione.

Questa prospettiva nuova, diversa, dà un senso alla vita, un valore nuovo, che rispetta la vita stessa nella sua totalità, nell’incontro con l’altro/a, nel sostegno, nella solidarietà, nella comunione.

         Quindi il profeta Isaia conclude il suo richiamo così: «Allora il Signore sarà la tua guida, la tua protezione. Allora chiamerai e il Signore ti risponderà e quando pregherai ti dirà: “Eccomi!”.

         Amen!

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Pastore Giuseppe Ficara

Consacrato nel 1992, ha svolto il suo ministero nelle chiese di Riesi, Caltanissetta, Agrigento, Trapani e Marsala, Palermo.
Pastore a Luserna San Giovanni da Agosto 2013.

 

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