Culto domenicale:
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Domenica, 02 Febbraio 2020 19:28

Sermone di domenica 2 febbraio 2020 (Apocalisse 1,9-18)

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Testo della predicazione: Apocalisse 1,9-18

Io, Giovanni, vostro fratello e vostro compagno nella tribolazione, nel regno e nella costanza in Gesù, ero nell’isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza di Gesù. Fui rapito dallo Spirito nel giorno del Signore, e udii dietro a me una voce potente come il suono di una tromba, che diceva: «Quello che vedi, scrivilo in un libro e mandalo alle sette chiese: a Efeso, a Smirne, a Pergamo, a Tiatiri, a Sardi, a Filadelfia e a Laodicea». Io mi voltai per vedere chi mi stava parlando. Come mi fui voltato, vidi sette candelabri d’oro e, in mezzo ai sette candelabri, uno simile a un figlio d’uomo, vestito con una veste lunga fino ai piedi e cinto di una cintura d’oro all’altezza del petto. Il suo capo e i suoi capelli erano bianchi come lana candida, come neve; i suoi occhi erano come fiamma di fuoco; i suoi piedi erano simili a bronzo incandescente, arroventato in una fornace, e la sua voce era come il fragore di grandi acque. Nella sua mano destra teneva sette stelle; dalla sua bocca usciva una spada a due tagli, affilata, e il suo volto era come il sole quando risplende in tutta la sua forza. Quando lo vidi, caddi ai suoi piedi come morto. Ma egli pose la sua mano destra su di me, dicendo: «Non temere, io sono il primo e l’ultimo, e il vivente. Ero morto, ma ecco sono vivo per i secoli dei secoli, e tengo le chiavi della morte e dell’Ades. Scrivi dunque le cose che hai visto».

Sermone 

            Cari fratelli e care sorelle, l’Apocalisse è un libro che ci parla di speranza, fu scritto durante le feroci persecuzioni dell’imperatore Domiziano, il quale si era dato l’appellativo divino di “dominus et deus noster”, così voleva essere invocato dai suoi sudditi. Ma per i cristiani questa invocazione poteva essere rivolta soltanto a Dio, si rifiutavano quindi di dare del divino a un uomo che si arrogava il titolo di Dio, benché imperatore. Da qui le dure persecuzioni dei cristiani.

          Il libro dell’Apocalisse svela dove si annida il male per riconoscerlo e invocare la liberazione di Dio. Le comunità cristiane erano oggetto di rappresaglie e persecuzioni; in mezzo a loro giungeva chi portava terrore e morte; eppure, questi credenti che rischiando la propria vita tutti i giorni, s’incontravano dicendo: «Gesù è il Signore dei Signori e il Re dei re».

L’Apocalisse ci dice quella parola che tutti vorremmo sentirci dire quando viviamo il dramma della sofferenza, il tormento del dolore, la solitudine più triste, la notte più buia.

Il libro apocalittico era scritto sempre nelle occasioni di tragiche persecuzioni dai contorni davvero apocalittici, come potremmo definire quello della Shoah, durante il periodo nazifascista.

L’autore dell’Apocalisse, Giovanni, parla di una grande tribolazione che egli stesso stava attraversando, con altri credenti; è confinato nell’isola di Patmos e lì, più che mai, riconosce e capisce che Dio gli è vicino con la sua presenza viva, ma soprattutto riconosce l’onnipotenza di Dio sopra tutti coloro che si fregiano dei titoli di Dio sottomettendo e opprimendo altri esseri umani.

Dire, dunque, che Dio è il solo sovrano e non il persecutore che annienta e distrugge, uccide, violenta e si erge a dio, è una confessione di fede che va scritta perché i credenti sappiano che non sono soli in balia della tempesta; così Giovanni usa la forma dell’apocalittica per affermare questa convinzione, una forma che parla per immagini forti, che evocano messaggi, attese, emozioni. Non si possono rappresentare su dipinti le visioni di Giovanni, ogni tentativo è sempre caduto nel grottesco perché le visioni non sono immagini da rappresentare, ma sono significati da capire; infatti egli stesso dice sovente: «Qui occorre una mente che abbia intelligenza» (17,9) perché il significato è nascosto.

Nel nostro brano troviamo una voce che gli parla, una voce come il suono di una tromba, si tratta di uno strumento cultuale ebraico: sono le stesse trombe che suonano durante le teofanie, quando Dio visita il suo popolo, quando il popolo è convocato al cospetto di Dio; come Israele, davanti al Sinai, condotto da Mosè ai piedi del monte per incontrare Dio, ecco, si ode un fortissimo suono di tromba (Es. 19,16); l’annuncio di Giovanni, invece, è quello di Gesù il Cristo che si presenta al cospetto degli esseri umani con tutta la sua gloria e la sua potenza, portando una veste lunga, un “poderes”, abito sacerdotale, e una cintura d’oro: si tratta delle insegne del sommo sacerdote e del re. Gesù infatti è Re di tutti, anche dell’imperatore e Sommo sacerdote, è sopra tutti i sacerdoti.

Gesù è, per i credenti, il vero e unico difensore, il loro sommo mediatore nelle difficoltà della vita, nelle persecuzioni e nelle sofferenze; Giovanni sottolinea che Gesù accompagnerà i credenti come fa un padre amorevole con i suoi figli; ed essi non devono temere chi si presenta a loro come re che esige adorazione e riverenza, Gesù assicura di essere l’unico vero Re e Signore che ha a cuore la sorte dei suoi fedeli e di tutta l’umanità, anche dell’imperatore. (Pausa)

Gesù appare tra sette candelabri, non uno a rappresentare le chiese cristiane, ma sette candelabri che rappresentano la totalità e la pienezza, in questo caso si fa riferimento all’ecumenicità della fede: essa, nonostante la diversità delle chiese, è una soltanto. Il Signore è in mezzo ai sette candelabri, presente nelle chiese e vigila su di esse non lasciandole sole, né abbandonando i credenti a se stessi, alle prove e alle tribolazioni. Gesù è colui che li custodisce.

Infatti egli porta nella sua mano destra sette stelle che rappresentano i pastori delle chiese, sono chiamati “angeli, sono i pastori a cui Dio affida la amorevole di quelle chiese; li tiene nella sua mano per simboleggiare la cura che rivolge alle comunità che sperano in lui.

Nessuna paura, non c’è da temere: chi appare tra i candelabri e tiene le sette stelle nella sua mano è più forte di ogni persecutore, più potente di ogni male che giunge per annientare, avvilire e devastare; dalla sua bocca esce una spada affilata a doppio taglio: questa immagine indica che Egli è colui che parla ma anche agisce, indica che ciò che promette realizza; i credenti non devono temere se il Signore tarda a venire perché l’ha promesso, e lo farà davvero.

Ma la spada indica anche la salvezza e la consolazione per i credenti, mentre diventa giudizio e condanna per chi vede se stesso come centro del mondo fino a opprimere e reprimere il prossimo riducendolo a una vita disumana: come quella di tante persone che subiscono ancora oggi violenza, schiavitù e respingimenti, ma anche povertà causata da chi se ne approfitta.

Ma la Parola del Signore è innanzitutto una parola di rassicurazione: «Non temere io sono il primo e l’ultimo, il vivente. Ero morto, ma ecco, sono vivo nei secoli dei secoli e tengo le chiavi della morte e del soggiorno dei morti» (v. 17-18).

Queste parole dicono che Gesù non è rimasto morto, è vivo: egli è il primo e l’ultimo, non ha un tempo di riferimento, non si può dire di lui che sia giovane o vecchio; egli è vivente, resta sempre come colui che è presente tra gli esseri umani. È lui che tiene le chiavi della morte e del soggiorno dei morti. Come dire che non c’è realtà che può fermare il potere di Cristo, la morte stessa deve cedere davanti a lui, non può opporgli nessun ostacolo.

«Non temere», dunque, perché nulla può impedire a Gesù di amarti, nulla può impedirgli di consolarti, nonostante il dolore, la malattia, la sofferenza, la morte stessa; nonostante il tuo vuoto, il tuo sentirti arido/a, solo/a. «Io tengo le chiavi della morte»: la morte, la violenza, il male, l’oblio, la devastazione, la persecuzione, la malattia, il non senso; nulla potrà più farti del male.

«Io sono il primo e l’ultimo», colui che è morto, ma è anche risorto, io sono il sofferente ma anche il guarito, il perseguitato, ma anche colui che soccorre. Gesù ha spezzato quell’ordine naturale per cui il destino delle persone si ferma e svanisce con la morte. Gesù ha le chiavi della morte: significa che egli viene a noi come il Signore della vita, per questo Gesù è il vivente. Ed essere Signore della vita può solo significare che per noi c’è speranza, che c’è sempre un futuro che ci attende, anche quando vediamo davanti a noi solo oscurità, malattia, distruzione e morte.

Proprio quando tutto sembra ormai perduto per noi, proprio lì, nel luogo dell’angoscia e dello smarrimento, egli ci viene incontro come il Signore della vita, per restituirci la nostra dignità e la nostra speranza, come una luce che illumina la nostra oscurità, come il medico che guarisce il malato, come quando una trappola s’inceppa e l’animale può scappare via.

Dio ci dona di sentirci amati e accolti, accompagnati e rassicurati, nonostante il buio e la disperazione che a volte incombono nella nostra vita. Gesù ci dice: «Ero morto, ma ora sono vivo»: Gesù è davvero vivo per te, per me, per tutti noi.

Nessuna paura, dunque, perché qualunque prova ci riservi la vita, Gesù sarà sempre per noi Colui che permette un nuovo inizio e una vita nuova. Amen!

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Pastore Giuseppe Ficara

Consacrato nel 1992, ha svolto il suo ministero nelle chiese di Riesi, Caltanissetta, Agrigento, Trapani e Marsala, Palermo.
Pastore a Luserna San Giovanni da Agosto 2013.

 

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